Ci si avvicina all’anniversario dell’uccisione di padre Pino Puglisi. Il sacerdote, parroco della chiesa San Gaetano di Brancaccio, venne ammazzato il 15 settembre del 1993 in piazza Anita Garibaldi, nel quartiere palermitano di Settacannoli. Quest’anno ricorrono i trent’anni da quell’assassinio avvenuto per mano mafiosa.
La settimana è iniziata con diverse iniziative – inaugurazione anno scolastico, consiglio comunale nel luogo dell’assassinio, mostre e tour – che rendono omaggio a chi ha avuto una visione su quel quartiere. Si ricorda l’uomo e il sacerdote che ha lasciato incarichi “prestigiosi” in seno alla diocesi, obbedendo a una richiesta dell’allora cardinale Salvatore Pappalardo. Una scelta difficile, specie per quegli anni. Anni di morti ammazzati – a Brancaccio si diceva che c’era un morto per mafia ogni due abitazioni -, anni in cui la denuncia di soprusi, richieste di pizzo, ribellione a cosa nostra erano realtà esotiche.
Ma cosa ha spinto don Pino a rimanere in quel quartiere? Cosa l’ha convinto a mettere in piedi il centro Padre Nostro? Dove ha trovato la forza? Ci sono virtù teologali, spesso citate e mai veramente comprese, che di tanto in tanto emergono anche nelle cronache. Si tirano fuori parole come fede, speranza e carità senza però andare mai fino in fondo.
Una tendenza comune è quella di svuotare – consapevolmente? – la dimensione religiosa di un uomo, in questo caso di un sacerdote, privilegiando l’aspetto laico. Probabilmente perché più facile e immediato da comunicare, perché non urta sensibilità comuni, oggi spinte verso un esasperato e impacciato laicismo. Eppure senza quel sostrato teologico nulla di ciò che oggi viene portato avanti dal centro Padre Nostro, realtà fondata proprio da don Pino, avrebbe la continuità d’azione e di pensiero.
Si preferisce, quindi, la narrazione della forma alla sostanza: il racconto sulla visione carismatica del sorriso prende il sopravvento sull’attenzione del sacerdote per lo studio e per la cura della persona, per la fede e la crescita di chi egli vedeva come figlio di Dio.
Nulla di nuovo sotto il sole, come scrive il Qoelet. Accade sempre. Un copione che di recente è stato messo in atto anche per il missionario laico Biagio Conte.
E, così, su quell’onda della formalità, si rinnovano ogni anno appuntamenti che puntano i riflettori su un quartiere, su vicoli e su periferie esistenziali che nel resto dei 364 giorni vivono nell’ombra. Un po’ fa comodo. Perché serve sempre un posto per farci sentire in pace con la nostra coscienza. Almeno una volta all’anno. E poco importa se quel posto oggi dispone di un tram o di rotatorie e sottopassaggi. L’evoluzione sociale non serve al popolo, se non è preceduta da un’evoluzione di pensiero. Ma il pensiero, si sa, richiede l’azione. E a questo punto, una parola è poca e due sono troppe.