Che sia l’invasione russa dell’Ucraina o il conflitto israelo-palestinese, abbiamo imparato a commentare le guerre con la stessa velocità e faciloneria con cui mettiamo il like al selfie di un amico, magari scattato davanti allo specchio di un ascensore.
Oggi i social dominano comunicazione e informazione. Tutto questo si declina magicamente negli effetti creati dalla famigerata bolla informativa. Vediamo solo ciò che ci piace e ciò con cui interagiamo di più. È più interagiamo con un certo contenuto, più ne vedremo di simili. Ogni reazione, condivisione e commento viene poi spinto e sospinto da foto o video piuttosto che da testi. E in questo calderone carico di insana emotività finiscono anche eventi drammatici come le guerre.
Le reazioni immediate, e spesso superficiali, a questioni che affondano le radici nella storia rischiano di trasformare ogni utente in complice di un delitto. Un omicidio che si ripete ogni volta che nel mondo scoppia una guerra, che divampa un conflitto. La vittima, va ricordato, è sempre una: la verità.
L’assassinio che si compie davanti ai pixel di un display non è efferato, non ci si sporca le mani di sangue e avviene anche in modo, apparentemente, innocuo: basta ridurre eventi complessi a slogan o emozioni istantanee. In fondo a supporto arriva pure la la velocità con cui le immagini e i video vengono condivisi, una velocità che non permette una riflessione critica.
Tutti si è portati a reagire emotivamente di fronte a cruente immagini piuttosto che analizzare il tutto con attenzione. Chi diffonde? Perché lo fa? Che cosa mostra e cosa nasconde? In questo contesto, la conoscenza diventa una risorsa fondamentale: solo una comprensione approfondita della storia, delle cause e delle conseguenze di un evento può offrire una visione reale di ciò che accade.
Le guerre non si possono ridurre a singoli episodi violenti immortalati in un video; sono il risultato di dinamiche politiche, economiche e sociali che richiedono tempo e analisi per essere comprese.
Per comprendere davvero un conflitto è necessario prima di tutto non essere complici del massacro mediatico della verità. Senza conoscenza, si corre il rischio di diventare parte di una massa informe (o abilmente formata) che commenta senza comprendere e diffonde confusione e disinformazione. La conoscenza si muove su flussi diversi rispetto a quelli dettati da uno scroll sul display del telefonino.