In queste ore, scorrendo Instagram e Facebook – un po’ meno tiktok -, è impressionante l’alternanza di selfie, foto, ricordi e aneddoti su Papa Francesco. Scatti rubati, sfocati… accompagnati da colonne sonore degne di un film di Sorrentino o da musiche tipiche dei servizi strappalacrime dell’infotainment. Una cosa è certa: tutti, o quasi, hanno da dire qualcosa sulla morte di Bergoglio. Anche chi viaggia lontano anni luce dai confini della fede, si cala nell’insidioso terreno del commento fosse solo per laicizzare e strumentalizzare l’operato del Pontefice. Insomma, è importante essere presenti a questo rito collettivo che unisce il lutto all’affermazione dell’identità personale.
Ecco il punto. Anche in questa occasione, la morte di un personaggio pubblico diventa un palcoscenico per chi resta. E, purtroppo, la figura del Papa, con la sua aura sacra e popolare, si presta perfettamente a questo gioco di specchi. Ci si premura a pubblicare qualsiasi contenuto. Un selfie fatto a distanza, un momento topico del Pontificato per affermare se stessi.
Ma perché?
Difficile dare una risposta netta. Imperscrutabile è l’intenzione di ogni singola persona. Sicuramente si avverte il bisogno di partecipare al cordoglio collettivo per sentirsi parte di una comunità. Ma, da quello che ho letto e visto, la condivisione di certi contenuti sembra un modo per legittimare il proprio vissuto. Sì, se da una parte, dire “c’ero anch’io”, significa dire “quella morte mi tocca, perché sono stato vicino a quella vita”, dall’altra c’è un tentativo, non troppo celato, di nobilitare se stessi per associazione.
Ecco, qui arriva la parte più scomoda.
Quella che ha a che fare con la vanità, la vanità che rimbomba sui social. Qualsiasi spazio virtuale di condivisione è per essenza una vetrina permanente del sé. In ogni commemorazione, anche nella più sincera, c’è una componente di narrazione personale: “Ecco chi sono io in relazione a questo evento”. La foto col Papa non racconta (solo) il Papa. Racconta se stessi in un momento significativo. Una forma di autoaffermazione in un momento in cui tutti guardano. E non intendo entrare nel perverso bisogno di like che alcuni coltivano nel silenzio della propria stanza.
Guardando con distacco i social ci si ritrova davanti a un’espressione goffa del bisogno di connessione, di significato, di memoria… di sé, di protagonismo, insomma. Una narrazione che, spesso, poco porta. Sicuramente, l’analisi che faccio è rigida e poco clemente. Ma temo questa dimensione dei social. La temo perché riduce queste piattaforme a cassa di risonanza del nostro ego, anche quando questo è vuoto. E non ci accorgiamo più di quanto gli algoritmi con il tempo ci stiano profondamente e intimamente cambiando.