C’è un documento che potrebbe far tremare i polsi agli editori. Per fortuna nel flusso continuo di innovazione difficilmente situazioni come quella prospettata da Google tendono a cristallizzarsi. Ma di cosa stiamo parlando? Arrivo al punto. In questi giorni mi sono confrontato con Francesco Marino, il project manager del sito Gds.it. Abbiamo insieme analizzato il flusso di contatti cercando di comprendere dove e come intervenire anche giornalisticamente. Durante questa fase, quasi in modo provvidenziale, ci è cascato addosso un documento. Eccolo: EU 2025 Report on the value of news content.
Breve e doverosa premessa. L’accesso all’informazione è cambiato. La partita oggi si gioca online e ci si deve confrontare con motori di ricerca, social e aggregatori di notizie. Velleitario il pensare ad altri flussi. Il giornalismo deve fare i conti – anche in senso non figurato – con i grandi fornitori di servizi e infrastrutture tecnologiche. Il nuovo documento pubblicato da Google (sintesi di un esperimento condotto tra novembre e gennaio 2025) fornisce una testimonianza chiara, mettendo in luce punti cruciali riguardo ai flussi di traffico, alle dinamiche di monetizzazione e ai possibili impatti futuri sull’ecosistema dell’informazione. Un esperimento che potrebbe continuare anche su altri fronti.
Le app di aggregazione e i feed personalizzati (come Google Discover) hanno moltiplicato i canali attraverso cui reperire notizie. Di conseguenza, la capacità di un editore di farsi trovare nelle ricerche – e quindi di avere visibilità – è divenuta fondamentale per la sopravvivenza economica di molte testate. E questo Google lo sa benissimo.
Il rapporto si è deteriorato
Nel documento, Google evidenzia i risultati di un esperimento in cui, per un campione di circa l’1% degli utenti in otto Paesi europei (tra cui l’Italia), sono state rimosse le notizie dalle principali piattaforme di aggregazione (Search, Discover e Google News). L’obiettivo era capire se l’assenza di contenuti giornalistici avesse effetti sui ricavi pubblicitari di Alphabet, la società madre di Google. In sintesi, il dato sorprendente è che, secondo lo studio, non aver mostrato news tra i risultati di ricerca non ha alterato in modo significativo le entrate pubblicitarie.
NON HA ALTERATO IN MODO SIGNIFICATIVO LE ENTRATE PUBBLICITARIE. GOOGLE DIXIT
Questo punto rappresenta, a mio parere, l’ultima spaccatura nel rapporto tra editoria e colossi tecnologici. Da un lato, i fornitori di servizi (come Google) sostengono che il valore economico generato dalla presenza di news all’interno dei loro risultati di ricerca sia marginale; dall’altro, gli editori puntano il dito contro le piattaforme, accusandole di trarre vantaggio dai loro contenuti e di sfruttare la posizione dominante per imporre condizioni poco favorevoli alla stampa.
Dal rapporto emerge che, sebbene la rimozione delle news non abbia influito sui ricavi di Google, ha invece provocato un calo delle «impressions», ovvero il numero di volte in cui un determinato link compare tra i risultati di ricerca e viene quindi «visto» dall’utente. A scanso di equivoci o esemplificazioni, roba che fa saltare dalla sedia Francesco, è importante capire che le impressions non si traducono automaticamente in click o letture effettive dell’articolo, ma indicano la potenziale visibilità offerta alla fonte.
E ora?
Se diminuisce la visibilità nei motori di ricerca e negli aggregatori, per i giornali diminuiscono le possibilità di essere raggiunti dai lettori. Anche senza la garanzia di un click effettivo, comparire tra i risultati di ricerca o nei feed resta cruciale per ottenere traffico qualificato. Oggi l’utente tende a trovare le notizie attraverso i suggerimenti degli algoritmi (come Discover) o a cercarle in modo rapido su Google. Diciamocelo senza troppi fronzoli: e gran parte del contenuto giornalistico scompare da questi canali, si rischia di generare un vuoto informativo o, perlomeno, di rendere più difficile la scoperta di fonti, che si vanno frammentando e moltiplicando sempre di più. Questo può influenzare e spingere l’utente verso altri servizi o piattaforme ancora più chiuse.
In prospettiva, bisogna lavorare sui modelli di business degli editori. Tocca quindi mettere in atto una strategia che crei un equilibrio tra accesso – e quindi visibilità sui motori – e monetizzazione. Ma, c’è sempre un ma…
Il nodo dell’expertise digitale
Un altro tema cruciale che emerge dal documento è la fragilità dell’editoria sul versante tecnico e di monetizzazione. Molte testate ancora oggi faticano a padroneggiare appieno i meccanismi di digitalizzazione, ottimizzazione SEO e pubblicità online. L’asimmetria informativa tra piattaforme tecnologiche e editori tradizionali è uno dei motivi che hanno portato a questa situazione sbilanciata:
- Conoscenza dei meccanismi di indicizzazione: apparire in prima pagina su Google non è sempre semplice. Serve un know-how su SEO (Search Engine Optimization), formati e tempi di pubblicazione.
- Modelli pubblicitari poco diversificati: la dipendenza dalla pubblicità digitale gestita da poche grandi piattaforme rischia di stringere l’editoria in una morsa, con margini di guadagno sempre più ridotti.
- Limitata innovazione nei prodotti: non tutte le redazioni dispongono di figure specialistiche (data analyst, esperti di marketing digitale, sviluppatori) in grado di creare strategie nuove di distribuzione e monetizzazione.
Il vero grande problema: le conclusioni di Google: “Non avere notizie non ci fa perdere introiti”
Uno dei passaggi più controversi del rapporto di Google è la netta conclusione:
Avere o non avere notizie tra i risultati di ricerca non influisce in modo sostanziale sui ricavi pubblicitari di Alphabet.
Il rischio è che questa considerazione possa essere anche un annuncio. Google, e in generale le piattaforme, potrebbero essere ancora meno inclini a concedere condizioni contrattuali favorevoli o a investire in iniziative di sostegno all’informazione. Se mostrarsi o meno “amico” dell’editoria non influisce sui bilanci, la leva di potere negoziale degli editori si assottiglia ulteriormente.
Il report di Google è una sorta di cartina al tornasole per comprendere lo stato attuale di un ecosistema informativo molto complesso:
Da un lato, il passaggio al digitale (avviato ormai vent’anni fa… una vita!) ha trasformato le modalità di fruizione delle notizie, spingendo il pubblico a cercare l’informazione in modo “disaggregato” e spesso intermediato da piattaforme e motori di ricerca. Dall’altro, le tensioni tra tech company ed editori restano elevate, soprattutto per quanto riguarda la distribuzione dei ricavi pubblicitari e la regolamentazione dell’accesso ai contenuti. Sullo sfondo, i consumatori rischiano di perdere la varietà delle fonti, se l’editoria tradizionale non riuscirà a sostenersi economicamente e a migliorare le proprie competenze digitali.
Cosa mi allarma?
L’assenza delle notizie all’interno dei risultati di ricerca non penalizza il conto economico di Google. Ma dall’altra parte tutto questo si traduce in una riduzione delle impressions e, potenzialmente, in minor traffico. In un contesto in cui la sopravvivenza delle testate si regge (ancora) su un mix di pubblicità e paywall, non essere visti significa semplicemente “non esistere”.
Che fare?
Lavoriamo tutti – giornalisti, informatici ed editori – per colmare il gap di conoscenze tecniche, per costruire un dialogo maggiore con i lettori, costruendo community fidelizzate e sul fronte amministrativo per creare un rapporto più equilibrato con i fornitori di servizi tecnologici, pena il rischio di un ulteriore indebolimento del sistema dell’informazione.