La mia generazione ha impresso nella memoria cosa faceva e dov’era quando alle 17.58 del 23 maggio del 1992 il tritolo fece saltare per aria Giovanni Falcone, Francesca Morvillo, Rocco Dicillo, Antonio Montinaro e Vito Schifani. Basta chiedere a un over quaranta e si avranno narrazioni dettagliate. Come se quell’evento – così come il 19 luglio – fosse uno spartiacque tra la fanciullezza e l’adolescenza. Tra il sogno e la consapevolezza.
Da quell’anno, il 1992, ogni 23 maggio e ogni 19 luglio, ho commemorato le stragi. L’ho fatto da studente, l’ho fatto da cittadino, lo faccio da oltre vent’anni come giornalista. Albero Falcone, via D’Amelio. Due luoghi simbolo. Due spazi della memoria. Che vivo.
Ho sempre guardato con diffidenza alle critiche rivolte a questi due momenti, a queste commemorazioni. E’ soprattutto la critica più inflazionata, quella che punta il dito contro la retorica, che guardo con sospetto e timori. Ormai c’è un popolo alza lo scudo del fastidio al grido: basta con la retorica. Il motivo? Ci si ostina a guardare il dito e non la luna.
Il palco vuoto e pieno
Ieri, 23 maggio 2024, mi sono ritrovato per il 31 esimo anno di fila in via Notarbartolo. E come avvenuto per gli ultimi vent’anni, ero lì nelle vesti di cronista. Ho apprezzato tantissimo le parole e la forza di Maria Falcone, sorella di Giovanni. Sopra un palco libero da presenze politiche, alcune un tantino ingombranti, la prof. Maria ha tenuto un discorso semplice, diretto, forte. Emozionato. Sembrava il testo di una meravigliosa eredità lasciata soprattutto alle nuove generazioni e all’esercito di insegnanti che anche quest’anno non è mancato all’appuntamento. Maria Falcone ha dominato la scena perché ha posto dei paletti su un ricordo che deve farsi memoria collettiva. Quest’anno non ci sono state esibizioni, musica e intrattenimento. C’è stato il silenzio, la dimensione dell’ascolto, c’è stato raccoglimento. E smarrimento. Sì, in tanti attendevano altro o altri. Anche il grido di “fuori la mafia dallo Stato” carico di rabbia è sembrato dissolversi in un flusso e in un grido ancora più grande. Quello del silenzio collettivo.
Ritengo che queste liturgie collettive siano da considerarsi sacre in una terra che ha profanato la vita. Siano un modo per mantenere viva la memoria di coloro che sono morti per la giustizia e la legalità. Le mie figlie, così come le nuove generazioni, devono conoscere la storia delle stragi di mafia per comprendere i pericoli e le conseguenze della criminalità organizzata. Tutti siamo chiamato alla consapevolezza e alla responsabilità.
La mafia rappresenta una minaccia diretta alla democrazia e allo Stato di diritto. Le stragi di mafia sono parte integrante della storia contemporanea e ricordarle contribuisce a costruire una memoria storica condivisa. Il rischio è che tutto venga dimenticato o, peggio ancora, distorto. Giudici, giornalisti e forze dell’ordine hanno dato la propria vita per una società più giusta. E questa società è chiamata a rispondere. A partire da un esercizio che dà continuità all’essere: la memoria.