Santa Rosalia ha liberato Palermo dalla peste. E i palermitani hanno seguito l’esempio liberando Palermo dal Covid. Mancano pochi giorni al Festino di Santa Rosalia. Siamo giunti all’edizione numero 397. E dopo due anni di pandemia, c’è notizia.
Facciamo, intanto, qualche doverosa premessa per chi non vive a queste latitudini. Quando parliamo di Festino parliamo della festa della patrona di Palermo. Attenzione però, quella del 14 luglio non è una festa religiosa. Quest’ultima, per intenderci, si celebra il 4 settembre. Così come vuole il calendario dei Santi. Quella della sera del 14 luglio è, invece, una festa diversa. E mi spiego. Perdonate, intanto, il campanilismo, ma Palermo è davvero una città unica in ogni sua forma. Al punto che diversifica pure la celebrazione della santa che ha eletto come protettrice. Mai avvenga che tutto si esaurisca all’interno di un edificio religioso. Sarebbe una privazione della vocazione alla multiculturalità e alla tolleranza religiosa di questa terra. E poi, volete mettere una celebrazione eucaristica di un’ora con la possibilità di rendere rituale un’intera serata?
Il 14 luglio si piomba così in una festa che mischia la storia alla leggenda, il sacro al profano. Un confine labile che negli anni è stato colmato da drammatizzazioni teatrali che hanno superato il confine della comprensibilità. Ma ai palermitani piace anche questo: il dire “bello” pur non comprendendo. Un percorso catartico.
Anche se in modo impercettibile, santa Rosalia viene vissuta dai palermitani come un patrimonio unico. Un vanto mondiale. Santa Rosalia è pura e bella. Santa Rosalia è la rosa e il giglio. Santa Rosalia sta sul promontorio più bello del mondo. Ma santa Rosalia è anche una santa che riesce a trascinare a sé tanto i laici quanto i devoti. Mistero della fede.
Eppure piuttosto che chiamarlo Festino di Santa Rosalia, sarebbe opportuno definirlo festino dei palermitani. Avviene in modo tacito una sorta di autocelebrazione. Una liturgia collettiva a base di babbaluci, calia, semenza, anguria “agghiacciata”. In questo rito sono tutti aggrappati al “calice” della birra. Si muovono barcollando da un capo all’altro del Cassaro. Spingendosi e sospingendosi fin dove è possibile sfidare le leggi dell’impenetrabilità dei corpi. Si arriva così con la testa all’insù dopo aver varcato Porta Felice. Tutti intenti ad osservare stupiti i fuochi d’artificio. Epilogo è la masculiata, con il tonfo finale e l’esclamazione quasi sussurrata: miiiih ru buattu! (accipicchia che boato, nda)
Un imponente corteo si muoverà lungo corso Vittorio Emanuele il 14 luglio. E lo farà ricordando la liberazione della città dalla peste. Tutto questo nonostante oggi si combatta contro una nuova epidemia. Ecco l’ennesimo paradosso, l’ennesima contraddizione di Palermo.
Si resterà tutti stretti intorno alla Santa per dire grazie per aver liberato la città dalla peste nel 1625, fiatando l’uno sull’altro. Strisciando, camminando affiancati e stretti. Sicuramente senza mascherina “perché siamo all’aperto” e l’assembramento è solo una dimensione dello spirito.
E ci si contagerà, felici ed entusiasti per aver comunque celebrato se stessi. E la propria capacità di aver guarito Palermo da un’epidemia: quella del buon senso. Un’epidemia che a queste latitudini fa i conti con anticorpi straordinari.