Ieri il crollo del sistema Zuckerberg.
Non funzionano per ore Whatsapp, Facebook e Instagram.
È durato sei ore il down più lungo nella storia dei social. I dipendenti del colosso della tecnologia non hanno potuto usare il telefono né entrare nei vari edifici: i badge infatti erano bloccati. Non hanno ricevuto email dall’esterno e perfino diversi servizi di cloud erano accessibili solo da chi vi era entrato prima del crollo globale.
In tanti si sono trovati a utilizzare o a riutilizzare Twitter, Telegram e LinkedIn.
E ci si accorge così che nulla è più come prima.
Il bisogno di connessione, o meglio di interconnessione e condivisione, nel momento della sua privazione, lo avvertiamo come una necessità.
Un bene? Un male?
Di certo un cambiamento storico di portata epocale. Siamo tutti più soli?
Le nostre false personalità social hanno ieri fatto i conti con l’impossibilità dell’esserci. Lì, in quell’ecosistema irreale, virtuale. E in tutto questo ci sfugge il senso di un declino. Quello di una umanità che si è consegnata da tempo ai voleri di una intelligenza artificiale che domina ogni aspetto del nostro esistere attraverso quegli algoritmi tanto evocati quanto sconosciuti.
E sprofondiamo sorridenti nel Paradosso.
A partire dal condividere una simile presa di coscienza nel luogo dove le coscienze dormienti sono in fondo ad una caverna. Ad osservare le ombre proiettate sul muro. Credendo quella sia tutta la realtà.
Un tempo la conoscenza ci avrebbe condotto all’esterno. Leggete il mito della caverna di Platone. Si trova nel dialogo intitolato Repubblica.
Immaginate una caverna sotterranea in cui gli uomini sono incatenati e costretti a guardare solo davanti a sé, ciò che compare sul fondo della caverna, «fin da fanciulli, incatenati gambe e collo, sì da dover restare fermi e da poter vedere soltanto in avanti, incapaci, a causa della catena, di volgere attorno il capo». Questi uomini vedono riflesse sul muro delle ombre, esse corrispondono a delle statuette che sporgono da un muro situato alle spalle degli uomini prigionieri, tali statuette raffigurano tutti i generi di cose. Dietro il muro si muovono, senza essere visti, i portatori delle statuette, dietro i quali brilla un fuoco che rende possibile con la sua luce il proiettarsi delle immagini sul fondo. In questa situazione i prigionieri pensano che le ombre proiettate sul muro siano la sola realtà esistente.
Platone propone di immaginare che uno dei prigionieri si liberi dalle catene: voltandosi egli si accorge delle statuette e capisce che esse, non le ombre, sono la realtà. Una volta libero il prigioniero ha però l’occasione di alzarsi e proseguire le sue scoperte, andando non solo dietro il muro, ma risalendo all’apertura della caverna e uscendo dalla stessa.
Lo schiavo liberato si ritrova abbagliato dalla luce del sole fortissima che illumina gli oggetti fuori dalla caverna, per questo li guarderà inizialmente riflessi nelle acque o illuminati dalla luce notturna degli astri. Si accorge dunque che non solo le ombre erano prive di realtà, ma le stesse statuette erano imitazioni delle cose contemplate fuori dalla caverna. Dopo un primo periodo, abituatosi alla nuova luce, l’uomo sarà in grado di contemplare le cose illuminate dal sole e di guardare il sole stesso riconoscendolo come fonte di conoscenza, esso infatti illumina le cose, altrimenti non conoscibili nella loro bellezza e perfezione.
Il mito della caverna si conclude inaspettatamente con il ritorno nella caverna da parte del protagonista, inizialmente liberatosi dalle catene. Nonostante egli voglia rimanere a contemplare la perfezione e la bellezza di ciò che ha scoperto fuori dalla prigione, sente il dovere di tornare indietro per liberare gli altri suoi compagni e svelargli la verità che ha scoperto. Tuttavia, tornando, si ritrova ad essere spiazzato dal buio che regna nel mondo da cui è partito, i suoi occhi sono incapaci di vedere le ombre e per questo i compagni lo deridono, non credono a ciò che prova a dimostrare e si ritrovano addirittura infastiditi dal suo tentativo di liberarli, per questo alla fine lo uccidono.
Oggi, tuttavia, in pochi decidono di abbandonare la caverna.
Cerchiamo soltanto di lottare contro i nostri fantasmi spostandoci in avanti per quanto lo permetta la catena.